
Il dolore silenzioso della malattia mentale che porta a chiedere la morte
C’è un dolore silenzioso ma altrettanto acuto di quello del corpo, un dolore che strappa l’anima e infrange la vita come un bicchiere di cristallo. L’esistenza diventa fatta di milioni di schegge, impossibili da rimettere a posto. Storie di un male di vivere fatto di solitudine, emarginazione, un desiderio mai soddisfatto di essere amati e accettati. Sono persone di tutte le età, quelle fotografate da uno studio di Jama Psichiatry che ha analizzato le richieste di morte assistita esaudite in Olanda dal 2011 al 2014 da parte di persone con malattie psichiatriche.
Nel 2014 in Olanda sono state eseguite 5.306 procedure, la maggior parte per malati terminali anziani oppure oncologici, per i quali la prognosi, infausta, non era in discussione. Solo negli ultimi anni sono state ammesse anche condizioni di particolare disagio mentale all’analisi delle commissioni mediche che decidono sui singoli casi, andando incontro alle richieste diffuse di estendere i principi di autonomia nelle decisioni di fine vita anche alle più controverse condizioni psichiatriche. Rispetto ai 3 casi del 1997, nel 2013 sono state presentate 42 richieste di aiuto al suicidio, pratica legale (con il nome di eutanasia o suicidio assistito) in molti paesi europei come Belgio, Olanda, Svizzera, Lussemburgo e Canada oltre ad alcuni stati americani.
I ricercatori si sono posti come obiettivo di descrivere le caratteristiche di questi soggetti e individuare l’esistenza i modelli di valutazione da parte dei medici chiamati a dare il proprio parere di opportunità. Allo scopo sono stati presi in esame 66 casi da cui è emerso un primo dato sorprendente, ossia che nonostante i tassi di suicidio generali siano appannaggio del sesso maschile, in questo caso il 70% delle richiedenti erano donne, dimostrando che tradizionalmente le donne hanno meno familiarità con modalità e strumenti offensivi e che invece cerchino sollievo alle proprie sofferenze se sono aiutate a gestire la fine della propria vita. Ma segmentando le fasce di età è emerso un nuovo dato: ossia che se 32% avevano più di 70 anni, il 25% rientrava nella fascia di età delle giovani adulte tra i 30 ai 50 anni e il 40% interessava la fascia 50-70. Ora se è comprensibile che una persona con più di 70 anni, una storia di malattia lunga decenni, terapie che non hanno funzionato e magari patologie concomitanti possa essere stanca di una esistenza avara e faticosa, è più difficile accettare che a chiedere di morire siano persone di trent’anni.
Il dubbio è che in alcuni di questi casi sia la medicina e più precisamente l’alleanza terapeutica ad avere fallito: a queste persone sono stati dati sostegno e strumenti per migliorare la propria salute prima e l’esistenza poi? I dati della ricerca hanno infatti evidenziato come 37 pazienti avevano in passato rifiutato almeno una volta i trattamenti psichiatrici proposti.
“Effettivamente il dubbio che l’alleanza terapeutica medico-paziente non abbia funzionato nasce, credo, legittimamente” spiega il dottor Gabriele Mandarelli Specialista in Psichiatria “I dati forniti, tuttavia, volutamente non forniscono un quadro dettagliato della realtà e pertanto è difficile effettuare valutazioni di merito precise. Ciò che si intuisce è che in diversi casi stiamo parlando di pazienti con condizioni psichiatriche particolarmente gravi, resistenti ai trattamenti farmacologici e talora chirurgici effettuati (quali ad esempio la stimolazione cerebrale profonda), quindi casi che presentano difficoltà di trattamento elevate. La perplessità nasce dal fatto ce se la scelta suicidaria, seppure assistita, è da leggersi quale sintomo di un disturbo psichiatrico, la stessa difficilmente può essere letta come frutto di una volontà libera e “sana” in termini di processo decisionale del paziente”.
Nell’analisi di un fenomeno delicato come questo i ricercatori hanno quindi messo a fuoco le condizioni cliniche di queste persone, attraverso l’analisi retrospettiva dei resoconti clinici pubblicati dai comitati etici regionali olandesi per l’eutanasia evidenziando forme severe di malattie mentali diventate croniche, con una storia di plurimi approcci terapeutici anche invasivi, tentati suicidi alle spalle e ricoveri in strutture psichiatriche, molti con disturbi di personalità. La depressione però è sempre protagonista, rappresentando il primo disturbo con il 55% dei casi a cui seguivano psicosi, disturbo da stress post traumatico, malattie neuro-cognitive, disturbi alimentari, condizioni di lutto complicato e casi di autismo. Quadri spesso peggiorati da comorbidità, ossia la presenza di malattie organiche concomitanti e disabilità varie.
Le procedure di morte assistita sono state svolte nel 41% da specialisti in psichiatria, nel 27% da medici che il paziente incontrava per la prima volta e nei restanti casi dai dottori delle Cliniche Mobili End of Life, strutture sanitarie che raggiungono il paziente al proprio domicilio. Troppo facile? Non proprio, i medici olandesi non prendono la cosa alla leggera e la legge stabilisce che i soggetti chiamati a valutare il caso possano avvalersi di ulteriori consulenti. Testimoniato dal fatto che in 32 casi la prima richiesta era stata respinta e accettata solo ad una successiva valutazione. Una richiesta su 3 nei casi psichiatrici viene respinta e una su 4 ha generato un disaccordo tra i medici chiamati a decidere, inoltre in 7 casi è stato necessario richiedere un consulto con tre o più specialisti con vari ruoli per arrivare ad una decisione ponderata.
“Il punto è definire con grande precisione se la persona è ‘capace’ di decidere e questo è un concetto che poggia su presupposti cognitivi ed emozionali dalle profondissime implicazioni legali” continua Mandarelli “ad esempio non esiste una regola che stabilisca che la malattia mentale generi automaticamente una incapacità a decidere. Per questo è necessaria una approfondita valutazione individuale che preveda anche test scientificamente validati e standardizzati che vadano insieme all’analisi obiettiva. Facciamo un esempio: paziente novantenne con diabete scompensato e rischio gangrena ad una gamba viene sollecitato dai chirurghi a scegliere l’amputazione. Egli, tuttavia, si rifiuta perché ritiene di aver vissuto la propria vita pienamente e rispetto alla prospettiva di vita che gli si pone davanti l’idea delle complicazioni e della sofferenza di perdere un arto non è un prezzo da pagare per una vita che non riterrebbe migliore”.
“È una decisione presa in libertà che ha un fondo di coerenza e che nessuno può annullare, anche perché è proprio la nostra Carta Costituzionale che sancisce che nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario contro la propria volontà, se non in casi, limitati, previsti dalla legge” prosegue lo psichiatra “Pensiamo ora invece che la stessa situazione clinica sia di una donna di quarant’anni afflitta da una depressione maggiore grave, non trattata, o refrattaria ai trattamenti che l’ha portata a trascurare e degradare il suo stato di salute sino a provocare la gangrena. Bene, in questo caso, il rifiuto di un’amputazione a fronte di un rischio di vita potrebbe non essere giustificabile con una scelta libera, ma va indagata la presenza di una grave compromissione della capacità di giudizio dovuta proprio alla malattia mentale. In altre parole se l’esito infausto, che pure viene compreso ed accettato, è sintomatico ed espressione dello stato depressivo con ogni probabilità tale scelta non può essere considerata espressione di una volontà libera da condizionamenti. Esistono dei protocolli strutturati per valutare la capacità decisionale dei pazienti che prevedono non solo che la persona capisca le informazioni che le vengono date e le conseguenze delle sue decisioni, ma che sia anche in grado di ‘trattenere’ nel tempo queste informazioni e che non sia compromesso il ragionamento logico-deduttivo della persona. Il vero problema, in generale, è la carenza normativa rispetto alle disposizioni di fine vita che dovrebbero peraltro essere raccolte quando la persona è in salute e pienamente in grado di decidere, una raccolta fatta in una situazione di malattia in atto è già così carica di complicanze emotive da risultate in parte pregiudizievole”.
La pratica dell’eutanasia giuridicamente protetta o il suicidio assistito (EAS) è in vigore da diversi decenni nei Paesi Bassi, e la legge è stata definitivamente introdotta nel 2002. La RTE, la commissione che regola le richieste, ha un forte impegno per la trasparenza, e la sua commissione pubblicazione pubblica una selezione di casi clinici che sono ritenuti “importante per lo sviluppo di standard” di fornire “la trasparenza e verificabilità” delle pratiche EAS e “per mettere in chiaro quali opzioni la legge dà i medici”.
I medici sono appositamente addestrati per assistere i colleghi nel processo di suicidio assistito. Nel marzo 2012, una nuova organizzazione chiamata EndofLife Clinic ha iniziato a fornire la prestazione a pazienti il cui proprio medico aveva rifiutato di eseguire l’eutanasia. Si tratta di squadre mobili composte da un medico e un infermiere finanziate dal Right to Die, l’associazione olandese per una fine volontaria della vita. La Psychiatric Association olandese ha pubblicato le linee guida su come valutare le richieste di eutanasia per pazienti psichiatrici. Peccato che argomenti come questi, che attengono questioni etiche come la disponibilità di decisioni sulla propria vita siano spesso strumentalizzate veicolando informazioni scientifiche con titoli che parlano di ‘pazienti psichiatrici uccisi con l’eutanasia’, il che costituisce un tentativo grossolano di orientare il pubblico sfruttando emozioni di sdegno.
“La ricerca in tema di eutanasia è certamente auspicabile ed I dati ad oggi disponibili non sono sufficienti per trarre conclusioni definitive circa l’appropriatezza delle procedure valutative né per determinare l’adeguatezza dei protocolli attualmente in uso in termini di garanzia di tutela del diritto di autodeterminazione ovvero di quello di tutela della salute. Le richieste di suicidio assistito da parte di pazienti psichiatrici presentano peraltro significative problematicità considerando che la possibilità che tale domanda costituisca il frutto di un processo psicopatologico scarsamente responsivo alle cure è particolarmente elevato” conclude lo psichiatra.